Da molti anni in Formula 1 il layout dei motori viene imposto per regolamento uguale per tutti: 3000 V10, poi 2400 V8 e poi ancora vincoli sull’alesaggio e sul regime massimo dei motori, per non parlare dei vincoli sulla durata e sullo sviluppo. Attualmente la formula motoristica prevede power unit ibride basate su motori endotermici da 1600cc V90° sovralimentati. In definitiva già da tempo le regole lasciano poco spazio alla fantasia dei motoristi.
Vi è stato un tempo in cui la fantasia dei motoristi aveva la massima libertà.
La nostra storia si colloca tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 quando alcuni piccoli team italiani con pochissime risorse finanziarie cercavano notorietà in Formula 1. Alcuni, come Minardi e Scuderia Italia, ebbero un discreto successo, altri, come la Life oggetto di queste note, Andrea Moda e Coloni, furono dei veri e propri flop.
Nel 1989 la Formula1, dopo aver abolito i motori turbo 1500, introduceva come unico vincolo la cilindrata di 3500 cc, lasciando liberi i progettisti di sbizzarrirsi sulle architetture. In questo contesto venne alla luce un motore dalla configurazione alquanto insolita, un W a 12 cilindri (quattro per ognuna delle tre bancate), sebbene non nuova perché già adottata in campo aeronautico; ne scaturiva un motore molto corto che avrebbe potuto interessare i telaisti più geniali e fantasiosi.
L’innovativo motore era stato progettato da Franco Rocchi, ex tecnico della Ferrari, che molto probabilmente si era ispirato ad uno studio elaborato a Maranello nel 1969 di un W12 con tre bancate a V definito anche a “diadema” che probabilmente non andò oltre la fase della fusione del basamento; un layout che in teoria avrebbe dovuto unire la potenza di un V12 alla compattezza di un V8 oltre alla possibilità di realizzare collettori di scarico in maniera ottimale raccordandoli bancata per bancata, come fossero tre motori 4 cilindri singoli.
I diritti del W12 di Rocchi furono acquistati dall’imprenditore Ernesto Vita con lo scopo di inserirsi nel giro della F1 come fornitore di motori con il marchio Life Racing Engines. Purtroppo nessun telaista si mostrò interessato e allora Vita, per dimostrare le qualità del propulsore, fondò una propria scuderia, la LIFE (Life in inglese significa vita, evocando così il cognome dell’imprenditore) con sede operativa in un piccolo garage di 2000mq situato a Formigine, in provincia di Modena.
Acquistò quindi il telaio realizzato dal progettista brasiliano Richard Divila (ex Fittipaldi) per il team First e vi fece adattare il motore W12 di Rocchi; la nuova monoposto fu denominata Life F190 (ma era anche nota con le sigle L190, W190 o semplicemente 190).
First era il team dell’ex pilota Lamberto Leoni, il cui progetto di F1 era abortito prima ancora di nascere tanto che non è mai stata schierata in pista una monoposto First di F1 se non per una esibizione al Motor Show di Bologna affidata alla guida di Gabriele Tarquini. La monoposto di Leoni, infatti, mancava di adeguato sviluppo per mancanza di fondi, tanto da indurre lo stesso Divila, che aveva abbandonato il progetto dopo aver constatato la scarsità di risorse finanziarie, a disconoscerne la paternità.
L‘impresa della Life non era certo semplice: la compagine emiliana era infatti, assieme alla Ferrari, l’unico team del mondiale che si costruiva tutto in casa, dal telaio al motore.
Per modificare la vettura al fine di adattarla al propulsore al W12 di Rocchi, venne assunto Gianni Marelli (ex Autodelta, Ferrari e Zakspeed) che aveva collaborato con Leoni per la definitiva messa a punto della First dopo l’abbandono di Divila.
Data la scarsità del budget e del materiale tecnico e umano a disposizione, la Life poté costruire una sola monoposto e ingaggiare un solo pilota, Gary Brabham figlio dell’ex campione del mondo Jack.
Ma purtroppo l’avventura della Life ebbe vita breve e senza sprazzi agonistici.
All’epoca le scuderie iscritte alla Formula 1 erano così tante che, prima di disputare le prove ufficiali, molte di esse dovevano disputare le prequalifiche, ossia una sessione di prove cronometrate da superare per avere il diritto di partecipare alle qualifiche vere e proprie. La Life, in quanto scuderia esordiente, dovette adeguarsi a tale prassi.
Nelle prequalifiche del primo Gran Premio del 1990, il Gran Premio degli Stati Uniti disputato sul circuito di Phoenix, Brabham accusò un distacco di oltre trenta secondi rispetto al tempo limite che gli avrebbe consentito la partecipazione alle qualifiche del Gran Premio. Nelle prequalifiche della gara successiva la monoposto percorse appena 400 metri prima di fermarsi per problemi alla batteria. Brabham, demoralizzato, abbandonò la scuderia e al suo posto fu ingaggiato l’esperto Bruno Giacomelli, che non gareggiava in Formula 1 dal 1983.
Purtroppo, nonostante una sede ben attrezzata con banco prove Borghi e Severi, acquisizione dati AVL, la disponibilità di quattro motori e due telai di cui ne venne usato solo uno, i risultati stentavano a migliorare.
La monoposto infatti si rivelò assolutamente inaffidabile, afflitta da innumerevoli problemi soprattutto di natura elettrica, da grossi limiti tecnici legati all’aerodinamica e dall’inefficienza del motore W12 per il quale venivano dichiarati 450CV contro gli oltre 700 degli altri propulsori ma comunque limitato a soli 370 cavalli per non incorrere in disastrose rotture. La velocità di punta della F190 era inferiore anche di 60/100 km/h rispetto a quella delle altre macchine.
All’inadeguatezza tecnica si affiancava quella organizzativa e strutturale: in sede lavorano un paio di meccanici a corto di esperienza e alcuni uomini più esperti, per lo più provenienti dalla Ferrari.
Dopo il Gran Premio d’Italia l’originale motore W12 venne sostituito con un più convenzionale Judd V8 ma le cose non migliorarono e questo provocò malcontenti ed incomprensioni, tanto che il direttore sportivo di allora volle mandare la macchina in pista senza ascoltare il capo meccanico e la F190 (nel frattempo rinominata L190) perse il cofano in pieno rettilineo, creando un notevole rischio per gli altri piloti e per tutto il personale a bordo pista.
Dopo un ultimo disastroso tentativo nel Gran Premio di Spagna, e quando le risorse finanziarie di Ernesto Vita si erano ormai esaurite, il team si ritirò dal campionato rinunciando alle ultime due gare in programma.
Neanche il tentativo di organizzare la partecipazione alle gare del 1991 ebbe buon esito, pertanto la scuderia sparì definitivamente dalla Formula 1 e i motori Life non avrebbero mai più partecipato ad un Gran Premio.
A consuntivo, nei 14 Gran Premi cui fu iscritta, la Life accumulò un deludente 100% di eliminazioni nelle pre-qualifiche; il suo miglior risultato, se così si può definire, lo ottenne a Monaco, dove Giacomelli girò a circa 2″ dalla pole della Formula 3.
In virtù di questi risultati la Life F190 è da molti ritenuta una delle peggiori vetture mai iscritte al mondiale di Formula 1, se non la peggiore in assoluto.
La vettura venne infine messa in vendita e acquistata da un collezionista, che la fece ri-equipaggiare con l’originario motore W12 onde impiegarla in esibizioni e raduni di auto da corsa storiche.
Scapini, il pilota collaudatore, sintetizzò con queste parole le cause del flop della Life: ”In sintesi, il problema della Life fu principalmente il motore, che aveva problemi di sviluppo a causa dei risicati mezzi economici a disposizione. Si rompeva sempre una delle bielle laterali per via delle vibrazioni che facevano “ruotare” le bronzine tanto da arrivare a tappare i fori di lubrificazione sul collegamento con l’albero motore. Quindi, per cercare di non rompere, bisognava impostare un regime di rotazione di 10.000 giri/min massimo, in luogo dei dovuti 12.500 con relativa perdita di potenza. Ma anche il telaio era un problema: montato il Judd V8 ex Leyton House che spingeva davvero, la macchina non stava in pista. Inoltre l’abitacolo era strettissimo: io e Giacomelli, rispettivamente 172 cm e 168 cm di altezza, non potevamo avere il sedile perché semplicemente non ci stava. Eravamo seduti sulla scocca e li legati. Anche il cambio, seppure progettato dall’Ing. Salvarani papà dei favolosi trasversali delle plurivittoriose Ferrari anni ’70, era durissimo e di difficile manovrabilità.”