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La AC Cobra Coupé A98 del 1964, la sorellastra inglese della Cobra Daytona
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La AC Cobra Coupé A98 del 1964, la sorellastra inglese della Cobra Daytona

Ottobre 4th, 2021 Fabio Avossa Piloti, storie e glorie

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L’AC Cobra Coupé A98 (un progetto del tutto indipendente dalla più nota Cobra Daytona) venne costruita dalla AC Cars Ltd. per partecipare alla 24 ore di Le Mans nel 1964. All’epoca non c’era un limite di velocità sulle autostrade britanniche e la AC, non disponendo di una adeguata pista di prova, provò l’auto sulla autostrada M1 spingendola ad una velocità di 185mph (circa 297 Km/h); purtroppo un solerte giornalista pubblicò l’evento sulla prima pagina di un giornale nazionale e questo potrebbe aver contribuito alla successiva introduzione in Inghilterra del limite di velocità a 70mph. L’auto venne poi coinvolta in un tragico incidente a Le Mans quando uno pneumatico scoppiò e in conseguenza dell’incidente rimasero uccisi tre spettatori che stavano assistendo alla gara da una zona vietata al pubblico.

La AC Cars Ltd. è stata una delle più antiche case automobilistiche indipendenti inglesi; l’azienda fu fondata nel 1903 dai fratelli Weller sostenuti finanziariamente da un macellaio di nome Portwine. Il loro primo prodotto fu una vettura da turismo da 20 CV che portava il nome dei fondatori ma il loro finanziatore, non convinto che all’epoca una tale tipologia di veicolo potesse avere un successo di vendite, spinse i Weller a produrre un veicolo commerciale, un tre ruote che divenne noto come AUTO CARRIER.

Il veicolo, dotato di un motore moto BSA monocilindrico da 631 cc, cambio a 2 velocità e sterzo posteriore, ebbe un incredibile successo, apprezzato per la sua facilità d’uso, per i costi di gestione ridotti e la affidabilità meccanica. Il successo fu tale che i fratelli Weller cambiarono il nome della loro società in Auto Carriers Limited e fu in questo periodo che venne introdotto il famoso marchio rotondo “AC”.

Qualche anno dopo, l’azienda tornò a produrre automobili con la Ten, una piccola biposto sportiva che però pagò le difficoltà del mercato causate dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale; dopo la guerra, durante la quale l’azienda era stata convertita alla produzione bellica, la AC riprese la produzione automobilistica con una gamma di modelli che includeva auto sportive e auto da turismo, ed è in questo periodo che la AC si costruì la fama di costruttore di auto sportive per le doti eccellenti del suo motore a sei cilindri.

Dopo aver cambiato proprietà due volte, nel 1930 la società cambiò nome in AC Cars Plc; sotto il controllo della famiglia Hurlock, proprietaria di una azienda di trasporti, la compagnia riuscì a sopravvivere anche ai disastri della Seconda guerra mondiale.

L’AC 2 Litre rappresentò i primi timidi passi per tornare sul mercato nel 1947, ma la notorietà del marchio cominciò a diffondersi nel 1953 quando la dirigenza, ben impressionata da un prototipo presentato loro dall’ingegnere John Tojeiro, decise di acquistarne i diritti per produrre un roadster a due posti, quello che sarebbe diventato famoso come AC Ace.

Ma la bella roadster offriva scarse prestazioni a causa del suo ormai vetusto motore basato ancora sul 6 cilindri nato nel 1919; le vendite della vettura ebbero maggiore slancio con l’adozione dei più moderni e potenti 6 cilindri in linea della Bristol (di derivazione BMW) e della Ford elaborati dalla Ruddspeed di Ken Rudd.

Solo nel 1962 la Ace riceverà il motore adeguato alle potenzialità del suo telaio quando Carroll Shelby propose ai fratelli Hurlock di montare un motore Ford V8 small block; così nasceva la Cobra.

Successivamente furono realizzati altri modelli come la AC 428, una bellissima cabriolet disegnata da Frua e la AC ME 3000, una vettura sportiva a motore centrale presentata nel 1973. Nel 1996 il marchio fu rilevato da Alan Lubinski che nel 2004 trasferì la produzione a Malta dove produsse la MKV, un modello basato sulla Cobra; ma nel 2008, causa un drastico calo delle vendite, la produzione cessò. Nel 2009 il marchio riapparì in mani tedesche con l’annuncio di un nuovo modello che uscì in Sud Africa nel 2012 con la denominazione di AC 378 GT Zagato.

Ma ritorniamo alla nostra storia

Carroll Shelby, nel corso di una Le Mans dove gareggiava alla guida di una Aston Martin, non aveva potuto fare a meno di notare l’ottimo comportamento dei telai delle AC Ace dotate di motorizzazione Bristol 2 litri che però lui riteneva sottodimensionati e si era perciò convinto che le Ace dotate di motori più potenti sarebbero state altamente competitive nella categoria GT dove avrebbero potuto contrastare lo strapotere delle Ferrari. Perciò, come abbiamo visto, per concretizzare la sua idea contattò i fratelli Hurlock che dettero il loro assenso .

Il progetto ebbe una serie di evoluzioni partendo da un Ford 221 V8 small block da3600cc, in seguito venne montato un 260 da 4300cc per arrivare nel 1963 al ben noto 289 da 4700cc.

Fu con quest’ultima motorizzazione che, a partire dal 1963, la Cobra incominciò a contrastare efficacemente le Ferrari tanto da indurre la Ford a sostenere l’operazione che poi sarebbe sfociata nella realizzazione del progetto Daytona per la categoria GT e della GT40 per i prototipi. Ma per battere le GTO si rendeva necessaria maggiore potenza che venne portata a circa 400CV contro i 300 CV di Maranello; purtroppo questa iniezione di potenza se da un lato aumentò le mostruose capacità di accelerazione della Cobra, dall’altro mise in crisi il telaio che tendeva a flettere sotto la spinta generosa del V8 Ford. Perdipiù l’auto non poteva sfruttare la sua potenza sul rettilineo delle Hunadieres del circuito di Le Mans lungo ben 6,75 Km (all’epoca senza chicane), poiché la carrozzeria aperta non aveva una buona efficienza aerodinamica; Shelby cercò di rimediare alla situazione montando un rudimentale hardtop ma anche in questo allestimento le Cobra accusavano ancora un handicap di 50 chilometri all’ora rispetto alle Ferrari che erano in grado di sfiorare i 300Km/h.

Apparve evidente che l’auto necessitava di profonde modifiche, pertanto Shelby affidò il progetto di rivisitazione della Cobra al giovane ingegnere Pete Brock che per il 1964 realizzò una versione coupé notevolmente migliorata conosciuta come Daytona.

All’incirca nello stesso periodo, i tecnici della AC Cars avevano individuato gli stessi problemi giungendo alle stesse conclusioni di Shelby pertanto il progettista dell’AC, Alan Turner, iniziò a sviluppare una versione coupé della Cobra, un progetto del tutto indipendente dal team americano. Turner realizzò una carrozzeria coupè completamente in alluminio che, ispirandosi alla Ferrari GTO, era caratterizzata da una sezione anteriore lunga e affusolata, dal tetto basso e profilato e dalla coda tronca secondo i dettami del prof. Kamm molto in auge a quei tempi; prendeva invece ispirazione dalla Mercedes 300SL per i profili sui passaruota per migliorare l’andamento dei filetti d’aria. Il telaio venne integrato con molti tubi extra per supportare il nuovo corpo vettura. L’auto venne designata con il suo numero di progetto “A98”.

Rispetto al fratello americano, l’A98 era più bassa di 20 centimetri e nel complesso appariva più aerodinamica. In termini di peso e potenza, tuttavia, era in netto svantaggio perché la Daytona era più leggera di 17 Kg e perché la Shelby, non prestando molta attenzione alla affidabilità, aveva elevato la potenza del V8 Ford fino a 400 cavalli, 50 in più della A98 il cui propulsore, alimentato con carburatori Weber, erogava circa 350CV.

La AC A98 venne approntata nell’Aprile del 1964 giusto in tempo per la sessione di test preliminari di Le Mans; mancò solo il tempo di verniciarla e perciò si presentò con la carrozzeria in nudo alluminio; in quella sessione di test avvenne un primo confronto diretto con la Daytona affidata alla guida di Jo Schlesser e Phill Hill.

La AC aveva costruito la propria versione coupé della Cobra senza dirlo a Shelby che venne a conoscenza dell’esistenza della A98 quando l’auto venne schierata alle prove di Le Mans in aprile, ma a causa dei problemi di gioventù non ne rimase impressionato.

Infatti la vettura, guidata dal collaudatore Peter Bolton, mostrò alcuni difetti aerodinamici in quanto la nuova carrozzeria generava molta portanza, tanto che Bolton non riuscì a spingerla oltre i 260 chilometri all’ora, a malapena più veloce dei roadster. Oltre a questi problemi di stabilità, il team riscontrò problemi di surriscaldamento del propulsore. In definitiva mentre la coupé americana veniva cronometrata in 4:02.300 sul giro, la versione britannica faceva registrare un deludente 5:01.100, quasi un minuto intero più lenta sul singolo giro.

Riportata la vettura in fabbrica, l’aerodinamica venne corretta montando un grande spoiler sulla coda e venne aperta una grande bocca nel cofano per agevolare la fuoriuscita dell’aria calda dal vano motore e risolvere contemporaneamente il problema del sollevamento anteriore. Contestualmente la vettura ricevette finalmente una mano di vernice, un classico British Racing Green.

Per verificare se le modifiche rendevano l’effetto voluto, l’auto venne portata sul circuito di test del MIRA (Motor Industry Research Association) situato nell’ex aeroporto RAF di Lindley. Purtroppo la giornata di prove andò sprecata perché l’auto era diventata, felicemente, troppo veloce per la pista di prova del MIRA che non disponeva di un rettilineo sufficientemente lungo per far esprimere all’auto tutto il suo potenziale; mancavano solo due settimane a Le Mans e bisognava trovare un’altra sede per i test di alta velocità. Poiché all’epoca non esistevano limiti di velocità, il team si recò a sostenere il test sull’autostrada M1; d’altronde a quei tempi, in carenza di circuiti permanenti, era una prassi che le case costruttrici come il Gruppo Rootes, la Jaguar, la Aston Martin collaudassero le loro novità su strade aperte al traffico. Il team convenne di incontrarsi al Blue Boar Services (ora Watford Gap) alle 4 del mattino; alle 4,30 iniziarono i lanci. Il test venne sostenuto sia da Jack Sears, campione britannico della categoria Turismo, che da Peter Bolton; entrambi sfiorarono i 300 Km/h, per l’esattezza furono raggiunti i 297 Km/h. Verso mezzogiorno, Jack Sears ricevette una chiamata da un giornalista del Sunday Times che, avendo appreso dell’evento da Tony Martin, nipote di Derek Hurlock, chiese notizie sull’andamento del test. Quando venne resa pubblica l’elevata velocità raggiunta in un tratto di strada aperta al pubblico (ma in realtà assolutamente deserta al momento del test) si sollevò l’indignazione pubblica e quel test della A98 ha probabilmente avuto una forte influenza sulla decisione del governo britannico di introdurre nel 1967 un limite di velocità di 70 miglia all’ora in tutto il paese, ma in realtà questa vicenda ha più il sapore di leggenda metropolitana.

A prescindere da questo episodio, il test ebbe un esito assolutamente positivo, tanto che alle qualifiche ufficiali della 24 ore Jack Sears e Peter Bolton tolsero oltre un minuto sul tempo ottenuto in Aprile. Con un tempo di 3:58.200, Sears e Bolton si qualificarono infatti a soli 2,1 secondi dalla Shelby Daytona più veloce guidata da Dan Gurney e Bob Bondurant e 4,1 secondi più veloce della seconda Daytona guidata da Jochen Neerpasch e Chris Amon. Nonostante l’handicap di peso e la minore potenza, l’A98 dimostrò di essere in grado di eguagliare le auto americane alla massima velocità, confermando la sua aerodinamica superiore; di conseguenza la vettura si qualificò al 13° posto assoluto e seconda della categoria GT dietro la Daytona di Dan Gurney.

Nelle prime fasi la gara sembrava andar bene, tanto che la A98 era in grado di tallonare i più performanti Prototipi e di guidare la Categoria GT posizionandosi tra la sesta e la settima posizione mantenendo una media di poco superiore ai 190 Km/h. Alle 19,30 Bolton fece una sosta di routine ma fu costretto a rientrare ai box dopo un solo giro per problemi di alimentazione. Dopo venti minuti di febbrile armeggiamento, i meccanici scoprirono che il circuito di alimentazione era intasato di residui di fogli di giornale, il che indusse il sospetto di un sabotaggio.

Dopo aver ripulito il circuito, alle 21:26 l’auto riprese la gara con Bolton alla guida dopo aver fatto rifornimento ma, per la fretta di riprendere la gara, non venne sostituito il set di pneumatici, un errore che costò caro perché mezz’ora dopo, quando erano stati percorsi 77 giri, uno pneumatico esplose mentre l’A98 percorreva il tratto veloce tra Arnage e Maison Blanche a circa 200 Km/h; inevitabilmente Bolton perse il controllo dell’auto ed iniziò a piroettare sulla pista; Giancarlo Baghetti, che era alla guida di una Ferrari 275P, non riuscì ad evitarla ed entrambe le auto finirono oltre le barriere. La A98 fu completamente distrutta, Baghetti e Bolton uscirono praticamente indenni dall’incidente ma purtroppo la Ferrari colpì tre spettatori, intrufolatisi in un’area proibita, che rimasero uccisi sul colpo. Il rottame della A98 venne riportato in fabbrica ed abbandonato in un angolo ricoperto da un telone.

Otto anni dopo, nel 1972, il rottame dell’auto fu acquistato da un appassionato e ci vollero 12 lunghi anni per il completo restauro.

Jack Sears, che ha guidato tutte e tre le varianti della Cobra Coupè, la Shelby, la Willment e l’AC, è certamente il più qualificato per esprimersi sulle loro prestazioni; questo il suo parere: “secondo la mia breve esperienza di Le Mans, l’A98 era potenzialmente la migliore del lotto ”

Avendo citato la Willment, è doveroso un cenno a questa versione britannica della Daytona.

John Willment era un importante concessionario Ford amante delle corse; appena seppe che Shelby aveva intenzione di costruire una serie di coupé Cobra chiese al team manager americano di vendergliene una ottenendo però un diniego; ottenne però che Shelby gli inviasse i disegni per costruirsela in proprio, ma colse l’occasione per alcuni interventi tanto che la Cobra Coupè di Willment non può definirsi una replica esatta della Daytona. Venne infatti abbassata la linea del tetto; il tetto ribassato comportava che il parabrezza, le porte, il tetto, i finestrini posteriori, i parafanghi posteriori, il lunotto e la coda di questa coupé differivano da quelli della versione italo-americane di Shelby, come anche alcuni dettagli del frontale. Ma anche buona parte della componentistica e degli interni era di produzione inglese: equipaggiamento elettrico, strumenti e accessori erano tutte di origine Lucas, Girling e Smiths.

La Coupè di Willment partecipò a molte gare con un discreto successo ma non riuscì mai a partecipare alla 24 ore di Le Mans.

              
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Fabio Avossa

Napoletano, perito metalmeccanico, pensionato, vive a Napoli. Appassionato di motori a 2 e 4 ruote in tutti i risvolti ma con particolare interesse per la storia delle corse. Motociclista da circa 60 anni, tifa Ducati e Ferrari (made in Italy), oggi sul suo profilo Facebook si diletta a parlare di moto e auto con particolare attenzione alle vicende del Motomondiale e della Superbike.

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