Questa volta vi parliamo di tre moto che, seppur bellissime e tecnologicamente avanzate, non sono mai nate: una Yamaha, una Kawasaki ed una Triumph. Oggi queste tre moto sono semplici oggetti da esposizione.
La Yamaha GL 750
Questo prototipo della Yamaha, esposto al 19° Salone di Tokyo nel novembre 1971, era una due tempi 4 cilindri in linea progettata come base stradale da cui derivare la TZ 700/750 (che avrebbe visto la luce nel 1974), la moto con cui corse e vinse Giacomo Agostini a Daytona e Imola, e prima ancora l’asso californiano Kenny Roberts.
Era la risposta di Yamaha alle 3 cilindri 2 tempi Kawasaki H2 750 e Suzuki GT 750.
Yamaha volle andare oltre optando per un motore sempre 750 2 tempi ma a 4 cilindri, con raffreddamento a liquido e un sistema di iniezione progettato per le motoslitte della stessa Casa.
L’estetica e la ciclistica provenivano, almeno in questo prototipo, dalla bicilindrica 4 tempi TX750; anche la strumentazione era identica con l’aggiunta del termometro dell’acqua.
La moto esposta ottenne subito i consensi degli addetti ai lavori.
Ma poi le sempre più stringenti normative sulle emissioni, soprattutto quelle degli USA, consigliarono la cancellazione del progetto; d’altronde era venuto a cadere anche un vincolo regolamentare perché la Federazione non impose che ai fini dell’omologazione fosse necessario un modello stradale come base di una moto da corsa derivata di serie, in pratica bastava che la moto fosse prodotta in piccola serie, anche se solo in versione “pronto pista”.
Senza dubbio la Yamaha raffreddata a liquido sarebbe stata meno rabbiosa e più potente della Kawasaki 750 H2 e sicuramente più performante della Suzuki GT 750.
Ovviamente le caratteristiche più “intime” di questo prototipo sono rimaste sconosciute ma, ricordando che la Kawasaki erogava 74 CV, è lecito pensare che avrebbe potuto erogare almeno 80CV, una potenza che avrebbe collocato al vertice le prestazioni della GL 750 almeno per tutti gli anni ’70.
La Kawasaki 750 Square Four
Prima di omologarsi alla formula del 4 cilindri in linea, i giapponesi hanno percorso diverse strade nella configurazione dei propri motori, strade che a volte hanno portato a dei fallimenti o, per motivi di mercato o legislativi, ad abortire progetti pur validi.
Un esempio di quest’ultimo caso è rappresentato dalla Kawasaki 750 Square Four caratterizzata dal motore 2 tempi 4 cilindri disposti in quadrato di cui si sentì parlare nel 1973 che, se fosse stata messa in produzione, sarebbe potuta diventare un’alternativa più moderna e tecnologica alla 750 Mach IV tre cilindri.
Erano i tempi in cui la casa di Akashi mirava ad avere nel proprio listino le moto più veloci di categoria; nel 1969 pensò di aver centrato l’obiettivo con la presentazione della 500 Mach 3 ma immediatamente dopo arrivò la risposta della Honda con la CB750 Four a cui la Kawasaki replicò nell’ottobre 1971 con la 750 Mach IV, due tempi 3 cilindri in linea raffreddata ad aria; non contenta, nel settembre 1972, al Salone di Colonia, presentò la 900 Z1 4 cilindri in linea a 4 tempi raffreddata ad aria.
Ma ormai la corsa alla potenza era partita e pertanto i vertici della Kawasaki decisero di far partire un nuovo progetto che mirava a superare la 750 Mach IV producendo una moto che a parità di potenza con la 3 cilindri producesse una velocità massima e un grado di perfezione maggiori pur mantenendo la stessa cilindrata. In pratica, a differenza della Mach IV, il nuovo prodotto non doveva basarsi solo sulla potenza ai fini delle prestazioni ma doveva invece rappresentare una nuova sfida per arrivare a realizzare una moto con prestazioni a tutto tondo.
Il progetto fu affidato al padre del Mach, Hiroyuki Matsumoto.
Al fine di contrastare la resistenza dell’aria si pensò ad un layout del motore compatto in senso trasversale arrivando così a definire la configurazione del 4 in quadrato, 2 tempi raffreddato a liquido. In estrema sintesi il motore risultava dall’affiancamento di due coppie di cilindri disposti in tandem.
Venne sperimentata l’alimentazione sia con i classici (per l’epoca) carburatori che con un impianto di iniezione.
Sembra che lo sviluppo progredisse positivamente quando improvvisamente, nell’agosto del 1973, arrivò lo stop a causa delle normative americane in materia di emissioni che penalizzavano il 2 tempi e pertanto la Kawasaki preferì concentrarsi a sviluppare ulteriormente il progetto della Z900 a quattro tempi che era già stata messa in vendita fin dal 1972.
Ovviamente la potenza massima della Square Four non è mai stata dichiarata ma è pensabile che avrebbe erogato quanto meno una potenza simile a quella della 900 Z1, circa 82CV contro i 74CV della 750cc Mach 4.
Ora questo prototipo fa bella mostra di sé al museo Kawasaki a Kobe.
La Triumph QUADRANT, l’erede delle Triumph/BSA 3 cilindri
Nella seconda metà degli anni ’60 il mercato motociclistico ebbe una importante evoluzione con il progressivo affermarsi delle maxi-moto, come venivano chiamate all’epoca le moto pluricilindriche di cilindrata superiore ai 500cc.
Alle classiche inglesi Norton, BSA e Triumph, che avevano nel proprio listino moto bicilindriche fortemente imparentate con i rispettivi modelli anteguerra, e alla tedesca BMW, forte del suo eterno bicilindrico boxer, si aggiunsero le italiane con la costosissima e rara MV Agusta 600 4 cilindri, le bicilindriche Laverda 650/750, Moto Guzzi V7 da 700cc., Benelli Tornado 650 e Ducati 750 GT.
Gli inglesi affrontarono questa sfida ammodernando i loro modelli classici, come fece la Norton con la Commando, oppure mettendo in produzione moto più moderne, ma pur sempre derivate dalla tecnologia anteguerra, come le 3 cilindri BSA Rocket 3 e Triumph Trident, entrambe di 750cc. La BMW invece seguì la strada della continua evoluzione del motore boxer.
Ma nel 1969 irruppe sul mercato la Honda con la CB 750 Four, seguita a ruota da Kawasaki e poi anche da Suzuki e Yamaha, e lo scenario cambiò radicalmente.
L’industria inglese si trovò perciò nella necessità di reagire perché le prestazioni delle 3 cilindri, da poco immesse sul mercato, non si dimostrarono all’altezza di quelle della Honda, per non parlare delle finiture, della cura dell’assemblaggio e del prestigio del motore pluricilindrico.
Ma in quegli anni il gruppo BSA, di cui faceva parte anche la Triumph, attraversava una profonda crisi finanziaria; per fortuna, con l’aiuto del governo britannico, il gruppo fu salvato dal fallimento passando alla NORTON VILLIERS, società appartenente alla Manganese Bronze Holdings di Dennis Poore, un ex pilota diventato un abile uomo d’affari.
Nacque così, nel 1973, la NVT (Norton Villiers Triumph) che racchiudeva i marchi Villiers, Matchless, Norton, AJS, Francis Barnett e James cui si aggiunsero, appunto, Triumph e BSA, in pratica tutti i nomi della (ex) prestigiosa industria motociclistica britannica.
All’epoca c’erano in ballo diversi progetti, tra cui lo sviluppo di un avviamento elettrico per le 3 cilindri, una nuova 870cc 3 cilindri da competizione per contrastare le superbike giapponesi ed infine il progetto di un motore 750/3 con albero a camme in testa comandato con cinghia dentata.
Ben presto ci si rese conto che sarebbe stato difficile portare le triple fino alle prestazioni delle moderne pluricilindriche giapponesi e perciò si decise di dare vita ad un nuovo progetto di maxi-moto che fu affidato al tecnico Doug Hele.
La nuova moto nacque come evoluzione delle tricilindriche; sembra infatti che il motore fosse stato ricavato dall’unione di due motori della BSA Rocket III (che aveva i cilindri leggermente inclinati in avanti, a differenza della Triumph Trident che aveva i cilindri perfettamente verticali) ottenendo poi, con la eliminazione dei due cilindri laterali, un quattro cilindri da 1000cc, per la precisione 987cc ottenuti da un rapporto alesaggio x corsa = 67×70; inizialmente il motore aveva un rapporto di compressione 9,5:1 ed era alimentato con 4 carburatori Amal Concentric da 27mm.
Venne allestito un primo prototipo montando il motore nel telaio inizialmente destinato al motore tre cilindri con albero a camme in testa mentre le sovrastrutture erano quelle della BSA Rocket 3.
La moto fu sottoposta ai primi test su strada nel 1975 con il tester Neil Coombes; nelle prime prove raggiunse i 205 km/h, circa 20km/h in più della Trident.
Molto presto, però, ci si dovette scontrare con la dura realtà dei costi di produzione che si sarebbero rivelati troppo alti determinando un prezzo di listino non competitivo. Al riguardo, per esempio, si pensi che l’anacronistico macchinario in dotazione alle fabbriche consentiva l’alesaggio di un solo cilindro alla volta anziché tutti e quattro contemporaneamente.
Il progetto fu perciò accantonato e la NVT si dedicò allo sviluppo di un bicilindrico realizzato in collaborazione con la Cosworth e di un motore rotativo Wankel che, stranamente, ebbe maggior fortuna.
La QUADRANT, come probabilmente si sarebbe dovuta chiamare la 4 cilindri britannica, non sarebbe comunque arrivata sul mercato prima del 1977, anno in cui la concorrenza giapponese era già alla seconda evoluzione delle maxi moderne ed in questo contesto sarebbe stata sicuramente fuori mercato.
Il prototipo della Quadrant venne ceduto al collezionista inglese Roy Richards che provvide a farla revisionare e completare da alcuni ex collaboratori di Doug Hele; oggi la moto è esposta al National Motorcycles Museum di Birmingham.