La Ducati Supermono nacque nei primi anni ’90; concepita per partecipare al campionato SoS (Sound of Singles), fu sviluppata da Claudio Domenicali da un’idea di Massimo Bordi e fu dotata di una sofisticata estetica dovuta alla matita di Pierre Terblanche.
L’idea di Bordi si rifaceva alla tradizione Ducati, peraltro perpetrata con la serie Desmoquattro in SBK, di realizzare un modello da competizione da cui derivare poi un modello stradale che avrebbe dovuto godere commercialmente dei successi sportivi. Ed infatti alla presentazione della nuova moto Bordi annunciava tre versioni stradali della Supermono, una sportiva estrema, una versione Sport ed una Naked. Ma poi, come vedremo in seguito, il progetto non ebbe alcun seguito commerciale.
Dalla sua nascita fino ai primi anni ’70 la storia della Ducati è stata legata al motore monocilindrico che ha visto la sua massima espressione nella versione detta “carter larghi” con testata desmodromica declinata nelle cilindrate 250, 350 e 450.
Poi venne l’epoca delle maxi e per i monocilindrici non ci furono più spazi commerciali. O almeno così pensarono in Ducati, una visione del mercato poi smentita dai successi commerciali delle monocilindriche giapponesi, prima la Yamaha con la XT500 e la corrispondente versione stradale SR500, seguita poi a ruota dalla Honda e successivamente da Suzuki e Kawasaki.
In realtà alla fine degli stessi anni ’70 la Ducati aveva tentato timidamente di riproporre il monocilindrico presentando i prototipi Rollah e Utah, con motore derivato dal Pantah, che non ebbero però seguito commerciale; un ulteriore tentativo venne fatto dalla ex collegata Mototrans (nel frattempo divenuta MTV) con la YAK 410 realizzata con la collaborazione di alcuni tecnici della Ducati ma che denunciò alcuni problemi tecnici che ne decretarono l’insuccesso commerciale.
Dopo una decina d’anni però l’ing. Bordi concepiva una sua idea di un monocilindrico moderno derivato dal bicilindrico desmoquattro privato del cilindro verticale ottenendo così un mono a cilindro orizzontale; da questa idea nasceva la Supermono che avrebbe potuto essere l’erede dei gloriosi monocilindrici Ducati, ma per decisione dei vertici aziendali (forse una ricerca di mercato non garantiva quote appetibili di vendita) non ne fu mai prodotta una versione stradale.
L’idea di mantenere il cilindro verticale avrebbe favorito il contenimento dell’interasse ma fu scelto di mantenere il cilindro orizzontale per ottenere una distribuzione dei pesi prevalente sull’avantreno, un baricentro basso ed un raffreddamento ottimale della testata totalmente esposta al vento della corsa.
Singolare il fatto che la soluzione tecnica del cilindro orizzontale era stato per anni un marchio di fabbrica della Aermacchi, rivale storica della Ducati, dalle cui generi era nata la CAGIVA, proprietaria della Ducati ai tempi della Supermono.
Ma la cosa è meno sorprendente di quanto possa apparire ricordando che il monocilindrico orizzontale è una architettura motoristica un tempo diffusissima tra i costruttori italiani probabilmente per gli stessi motivi che guidarono il progetto Ducati.
Tra gli “utilizzatori” di questa soluzione tecnica, oltre la citata Aermacchi, ricordiamo la MotoBi (venduta anche con il marchio Benelli), altra antagonista storica della Ducati e la Moto Guzzi che adottò il cilindro orizzontale per quasi tutte le sue moto fino all’avvento della V7 (come non ricordare il glorioso Falcone 500) e anche per le sue plurivittoriose moto da Gran Premio iridate nelle classi 250 e 350.
Ma l’elenco prosegue con la citazione dei bicilindrici 2 tempi della Rumi, la Motom 98 (progettata da Pietro Remor, il papà delle Gilera e MV Agusta 4 cilindri da Gran Premio), le interessanti Slughi e Olimpia della Parilla che sul finire degli anni Cinquanta realizzò anche una bellissima 125 da Gran Premio a cilindro orizzontale con ammissione a disco rotante.
In questo elenco è giusto menzionare anche il Gabbiano della bolognese FBM, l’Idroflex, il Guazzoni 150 Grifo, la Laverda 125 ad aste e bilancieri della seconda metà degli anni Sessanta.
Un cenno spetta anche alla Lambretta e al motore ausiliario Garelli Mosquito.
Nel campo delle competizioni ricordiamo le realizzazioni di Francesco Villa la cui 125 2 tempi ha gareggiato sotto le insegne della Mondial prima, poi come Moto Villa ed infine con il marchio Montesa per la quale Villa realizzò anche una 250 bicilindrica, tutte a disco rotante; nel 1965 la MV Agusta realizzò una 125 da Gran Premio di schema analogo a quello della Villa che però non è mai scesa in gara; ricordiamo ancora le bicilindriche artigianali Linto e Maltry i cui motori erano ottenuti dall’accoppiamento di due gruppi termici, rispettivamente, Aermacchi e MotoBi.
In campo straniero ricordiamo la tedesca Imme, alla quale si era ispirato Giuseppe Benelli quando dette vita alla sua azienda, la MotoBi, dopo la separazione dall’azienda di famiglia, mentre un cenno merita la realizzazione della Honda di una vasta gamma di monocilindrici utilitari con cilindrate comprese tra 50 e 90cc prodotti per tanti anni in un numero impressionante di esemplari.
Un’altra marca tedesca che ha prodotto motori con cilindro orizzontale è la Kreidler che, oltre alla produzione di serie, con i suoi 50cc ha vinto ben sette titoli della classe minore del motomondiale.
Infine ci sembra doveroso citare l’inglese AJS che conquistò il titolo iridato della classe 500 nel 1949, primo anno di istituzione del Campionato Mondiale, con una bialbero bicilindrica, i cui due cilindri erano appunto disposti orizzontalmente.
Ma ritorniamo alla storia della nostra protagonista.
Alla fine degli anni ’80 emergeva sempre più prepotentemente un movimento che portò alla definizione di una nuova categoria motociclistica, la Supermono, che concedeva totale libertà di realizzazione con un’unica limitazione imposta sul numero di cilindri, appunto uno. Le cilindrate oscillavano tra i 500 ed i 700cc.
Massimo Bordi, il direttore tecnico della Ducati, si interessò a questa formula semplice ed al contempo tecnicamente intrigante ed ebbe l’idea di ricavare un monocilindrico “segando” uno dei due cilindri del Desmoquattro; come abbiamo visto la decisione cadde sulla eliminazione del cilindro verticale/posteriore.
La Ducati varò il “progetto Supermono”, sigla interna di progetto 502, affidandone la responsabilità al giovanissimo ing. Domenicali.
Ovviamente il progetto manteneva tutte le peculiarità tecniche della famiglia desmoquattro (851, 888, 916) come la testata desmodromica bialbero a 4 valvole, l’iniezione Weber IAW a doppio iniettore e il raffreddamento a liquido ma era impreziosito da un particolare sistema per eliminare le vibrazioni costituito da una biella supplementare.
L’idea partiva dalla premessa che il bicilindrico a V di 90° è un motore naturalmente equilibrato perciò il monocilindrico avrebbe dovuto emulare lo stesso principio di bilanciamento; in pratica, invece di aggiungere un canonico albero ausiliario, si pensò di montare un bilanciere, che fungeva da massa oscillante, infulcrato sul basamento al posto del cilindro verticale soppresso e azionato all’altra estremità da una biella montata sul perno di manovella dell’albero a gomito a fianco della biella “vera”; il sistema venne denominato “a doppia bielletta” ma in Ducati veniva citato confidenzialmente come “batacchio“.
Questa soluzione consentiva di avere un motore, oltre che perfettamente bilanciato, molto più compatto e leggero di un motore con uno o più alberi di bilanciamento e relativi ingranaggi o catene di azionamento.
Dopo una prima versione di 550 cc, la cilindrata venne portata a 572 cc; pur non avendo, per limiti strutturali, una cilindrata vicini ai vertici della categoria, nelle ultime versioni il Supermono di Borgo Panigale arrivò ad erogare circa 80 cavalli a 10.000 giri/min, un regime impensabile per la concorrenza. Qui potete apprezzarne il sound.
Questo motore, montato su una ciclistica particolarmente agile e leggera, portò ad una moto estremamente competitiva tanto che all’esordio si aggiudicò il Campionato Europeo del 1993.
I primi prototipi di questo motore girarono al banco alla fine del 1990; la differenza principale rispetto al bicilindrico consisteva nell’utilizzo di bronzine ai perni di banco e per la pompa dell’acqua calettata sull’albero a camme di scarico anziché sull’albero di rinvio del comando della distribuzione ottenendo così un carter più compatto.
In pratica il Supermono assolveva anche al ruolo di banco di sperimentazione per future evoluzioni del bicilindrico.
Il primo prototipo aveva l’alesaggio i 95,6 mm della SBK ed una corsa di 68 mm per una cilindrata di 487cc. Successivamente fu adottata una corsa di 70 mm che portava la cilindrata a 502 cc.
Lo sviluppo portò alla realizzazione di un monocilindrico superquadro con misure di alesaggio x corsa pari a 100 x 70 per una cilindrata di 550 cc, rapporto di compressione 11,8: 1, 75 CV a 10.500 giri alimentato ad iniezione tramite un corpo farfallato del diametro di 50 mm; il cambio era a 6 marce con rapporti ravvicinati.
Il telaio era un tipico traliccio in tubi d’acciaio, in puro stile e tradizione Ducati, con forcellone d’alluminio irrobustito con una capriata di rinforzo. Sospensioni Ohlins; la sospensione posteriore era senza molleggio progressivo ma era registrabile in altezza.
Cerchi da 17″; l’interasse, molto compatto, era di 1360 mm.
L’impianto frenante era basato su una coppia di dischi flottanti da 280mm all’anteriore, con pinze a 4 pistoncini, e un singolo disco flottante da 220 al posteriore con pinza a doppio pistoncino.
Il peso della moto, gravante per il 54,5 % sull’avantreno, grazie al largo uso di carbonio e magnesio era contenuto in 118 kg a secco che diventavano 126 in ordine di marcia ottenendo così un ottimo rapporto peso/potenza.
La prima moto completa fu provata da Davide Tardozzi al Mugello nel Settembre del 1991 e a metà del 1992 a Misano; la carenatura di questo prototipo era molto simile a quella della SP4. Nel settembre del 1992 la Supermono venne presentata ufficialmente al salone di Colonia dove sfoggiava una bellissima carenatura, disegnata da Pierre Terblanche, che anticipava alcuni tratti caratteristici della futura 916.
La moto, portata in gara da vari piloti in diversi campionati sui circuiti europei, si dimostrò molto competitiva se non addirittura la migliore nonostante una cilindrata inferiore rispetto a quella delle dirette avversarie che in qualche caso arrivavano anche a superare i 700cc; nello stesso anno del debutto, il 1993, si aggiudicò il Campionato Europeo con Mauro Lucchiari.
Le Supermono giravano nei circuiti di tutto il mondo in tempi non dissimili dalle 600 Supersport da oltre 100 CV. Anche il famoso giornalista inglese Alan Cathcart ottenne numerose vittorie nelle gare dedicate alle monocilindriche 4 tempi in sella a questa moto.
Per il 1994 la mono di Borgo Panigale rimase praticamente invariata salvo qualche ritocco al motore, dotato di una evoluzione del sistema di iniezione, dove l’alesaggio venne portato a 102mm per una cilindrata di 572cc e una potenza di 81CV a poco meno di 10000 giri. Queste due modifiche relativamente semplici furono sufficienti per confermare la competitività della Supermono che continuò a spadroneggiare nelle piste di mezza Europa.
Nel 1994, infatti, Robert Holden raggiunse il secondo posto nella categoria Singles TT del Tourist Trophy, ma la consacrazione definitiva per la monocilindrica di Borgo Panigale arrivò l’anno successivo, quando Holden riuscì a trionfare sull’Isola Di Man, riprendendo la tradizione vincente delle Ducati monocilindriche e si sarebbe probabilmente ripetuto nel 1996 se un incidente mortale non lo avesse fermato; nel 1995 Holden vinse anche alla NW 200, in Irlanda.
Della ipotetica versione stradale di questa splendida moto, prodotta tra il 1993 e il 1995 in soli 67 esemplari esclusivamente per la pista, se ne son perse le tracce.
Per vedere una Supermono circolare su strada abbiamo dovuto aspettare l’iniziativa di qualche danaroso appassionato come il signor Tukui, un giapponese ultrasessantenne appassionatissimo di Ducati, ne possiede almeno tre tra cui una Supermono, che non si è accontentato di possedere una moto così rara, lui l’ha voluta anche utilizzare su strada ed è riuscito ad immatricolarla o come l’ingegnere britannico Alistair Wager, che ha lavorato in Ducati per molti anni, che ha realizzato una raffinatissima replica dotata di un motore derivato da quello della 999R.