Nel 1955, la sede italiana della Bardahl Oil Company decide di finanziare la partecipazione alla 500 miglia di Indianapolis di una monoposto assemblata con un tipico telaio roadster americano della Kurtis Kraft spinto da un propulsore Ferrari. Il pilota designato è Nino Farina, il pilota italiano che nel 1950 si era laureato come il primo Campione del Mondo nella storia della Formula 1. Il motore prescelto è un sei cilindri in linea tipo “121 Le Mans”, conosciuto anche come 446S o 735LM.
Il propulsore aveva alesaggio e corsa di 102x90mm per una cilindrata totale di 4412cc ed era alimentato da tre carburatori Weber 500DCO/A3; erogava una potenza di 360/380 CV a 6500 giri/min. I tecnici americani suggerirono di sostituire i carburatori con il sistema di iniezione meccanica Hilborn più adatta al metanolo. combustibile normalmente in uso ad Indy. L’assemblaggio finale della monoposto italo-americana, che sarà poi iscritta alla 500 miglia come Bardhal Ferrari Experimental (molto probabilmente con il beneplacito del Drake giacché i classici scudetti Ferrari campeggiavano sui fianchi della monoposto), fu commissionato alla OSCA dei fratelli Maserati.
Purtroppo a causa di qualche difficoltà, in particolare problemi di messa a punto del motore, ci fu un rallentamento nel programma per cui, nonostante fosse stata regolarmente iscritta con il numero di 47, la monoposto non venne approntata in tempo di conseguenza il programma venne rinviato all’anno successivo.
Alla fine del mese di marzo del 1956 Farina testò la vettura sul circuito di Monza; in attesa di una definitiva messa a punto poi il 12 aprile affrontò, superandolo, il rookie test alla guida della Ferrari 375 Marion Chinetti del 1954 cui venne assegnato il numero 91; infine la Bardahl-Ferrari fu portata ad Indianapolis il 12 maggio, iscritta con il numero 9.
Purtroppo il pilota italiano non riuscì a qualificarsi per una serie di ragioni tecniche e di gestione del team.
Forti piogge ridussero il tempo effettivamente disponibile per le qualifiche; nonostante il poco tempo a disposizione e la scarsa esperienza sul catino, Farina ottenne una media di 220 km orari, ma purtroppo per qualificarsi era necessario ottenere una media stimata tra 223 e 226 chilometri all’ora. Ad aggravare la situazione ci si misero le difficoltà comunicative tra americani ed italiani a causa della differenza di lingua.
Comunque, così come nel 1952, l’accelerazione della Bardhal-Ferrari era carente rispetto alle monoposto americane tanto che per ovviare a questo handicap la vettura era dotata di un cambio a tre marce e non di un canonico, per la Indy 500, cambio a due velocità.
La vettura venne poi presa in consegna da Chinetti e da allora se ne sono perse le tracce; Farina cercò di qualificarsi l’anno successivo con una monoposto meno esotica ma anche questo tentativo non ebbe un esito felice.
Morirà invece sul nascere il progetto di partecipare alla 500 miglia del 1973; informazioni più o meno certe su questo programma ci arrivano da una intervista di Mario Andretti e da un articolo della rivista Ferrari Story.
Andretti racconta di aver ospitato nel 1971 il tecnico della Ferrari Franco Rocchi presentandolo nel giro della Indy 500 come un lontano parente italiano appassionato di motori, consentendogli così di curiosare indisturbato sullo stato dell’arte della tecnica motoristica predominante in quel periodo nella classica statunitense. Inizialmente l’espediente funzionò ma fallì quando Rocchi fu riconosciuto da un meccanico della McLaren che lo aveva conosciuto quando entrambi avevano fatto parte del team di Chris Amon durante la partecipazione alla Tasman Cup nel 1969.
Sembra che, venendo a mancare l’elemento sorpresa, la Ferrari preferì rinunciare al progetto.
L’articolo Ferrari Story ipotizzava che la configurazione del motore sarebbe stata quella del 12 piatto derivato dalla Formula 1 sovralimentato con turbocompressore. L’articolo forniva anche alcuni dettagli: all’epoca la Ferrari non aveva ancora esperienza con il turbocompressore ma Rocchi avrebbe comunque optato per un motore turbo nonostante l’handicap del ritardo dell’acceleratore di tali motori, handicap al quale Rocchi avrebbe ovviato avendo avuto l’idea di includere un combustore nel sistema di scarico (una volta che il pilota avesse sollevato il piede dall’acceleratore, il combustore avrebbe bruciato il carburante per sostenere la rotazione del turbocompressore), una soluzione che sembra sia stata effettivamente sperimentata e che potrebbe aver ispirato soluzioni adottate in seguito sulla prima monoposto Ferrari F1 con turbocompressore, la 126CK del 1981.
Nulla si sa sulla parte telaistica del progetto: la Ferrari avrebbe costruito in proprio il telaio o si sarebbe rivolta ad un costruttore americano, con una operazione simile a quella della Bardhal-Ferrari-Experimental? All’epoca si ipotizzava che il fornitore maggiormente accreditato fosse All American Racers di Dan Gurney che vendeva monoposto con il marchio EAGLE.
Per quanto riguarda il pilota designato, ci si chiedeva se il coinvolgimento di Mario Andretti prospettasse un suo impiego per la guida della monoposto motorizzata Ferrari; in tal caso, sapendo che nel 1971 Andretti guidava per la STP del Granatelli Racing Team utilizzando un telaio McNamara motorizzato Ford, non è da escludere che si fosse ipotizzata una collaborazione con quel team.
Ma poi, come abbiamo visto il progetto abortì e tutte queste domande non ebbero mai una risposta.
La fantomatica CICADA-Ferrari del 1975
Ci sono notizie anche di un quarto accostamento del nome Ferrari alla 500 miglia dello stato dell’Indiana che però non vedeva in alcun modo il coinvolgimento, né ufficioso, né tantomeno ufficiale, della factory di Maranello. Stiamo parlando della CICADA del 1975, una monoposto americana che si diceva avesse montato un motore Ferrari 512S ridotto a 4,2 litri di cilindrata che nelle forme esteriori si rifaceva alle linee della Parnelli del 1972.
In realtà sembra che il “matrimonio” non sia stato mai celebrato e che la monoposto sia stata motorizzata con un classico Offy.
Effettivamente una Cicada-Ferrari venne iscritta in alcune gare del 1975, Bob Harkey provò a qualificarsi alla Indy di quell’anno ma non è mai stato chiarito se la vettura esistesse veramente e se avesse gareggiato perché in realtà si hanno notizie solo di monoposto Cicada con motori Offenhauser.
La Cicada Racing era una piccola factory che aveva costruito alcune macchine da corsa nei primi anni ’60; si ritiene che il team, situato a Plymouth, WI, abbia costruito almeno cinque vetture di Formula Ford e una Indycar che assomigliava vagamente alla Parnelli del 1972 e alle Brabham F1 della metà degli anni ’70 con la loro forma piramidale della monoscocca e della carrozzeria. La prima partecipazione della Cicada alla 500 miglia risale al 1972.
Anche in questo caso si ponevano degli interrogativi: come si sarebbe ottenuta la drastica riduzione di cilindrata, operando sulla corsa, sull’alesaggio o su entrambi? Il motore originale erogava circa 600 CV, la riduzione del 16% della cilindrata avrebbe comportato un’analoga riduzione della potenza, cioè a circa 500CV? E’ pur vero che la conversione da benzina a metanolo avrebbe consentito un significativo recupero della potenza persa, ma avrebbe anche comportato interventi su pistoni, testate, alimentazione e accensione. Ma la vera domanda è: chi avrebbe avuto il compito di fare interventi così radicali? In particolare su quest’ultima domanda non si sono mai trovate risposte.
La Ferrari Formula Cart (conosciuta anche come Ferrari Cart o anche Ferrari 637) venne realizzata secondo i regolamenti della serie nordamericana CART per partecipare alla 500 miglia di Indianapolis del 1987.
In realtà la vera ragione che spinse Enzo Ferrari a dare il via a questo progetto furono i dissidi con la Federazione Internazionale dell’Automobile (FIA) nati dalla decisione di abortire il regolamento di Formula 1 per la stagione 1985 che prevedeva la riduzione di cilindrata a 1200cc e per la quale la Ferrari aveva già sviluppato un nuovo motore 4 cilindri.
Per tal motivo Ferrari minacciò di abbandonare la Formula 1 e di dedicarsi alle gare americane e per dare concretezza alle sue minacce decise perciò di costruire una monoposto con le specifiche CART.
L’uscita della Ferrari dal circus iridato avrebbe sicuramente danneggiato l’immagine della Formula Uno, ma nessuno sembrò dare peso alle sue minacce, così Ferrari passò dalle parole ai fatti: “In effetti la notizia riguardante il nostro abbandono della F1 in favore degli USA ha delle basi concrete” disse Ferrari all’epoca. “Per molto tempo la Ferrari ha studiato un programma valido per partecipare al campionato CART ed alla Indy500. Se la F1 non riuscirà a garantire un regolamento tecnico e sportivo valido per i prossimi tre anni, la Scuderia Ferrari renderà questo programma effettivo, in accordo con i suoi partners”.
Il nome Ferrari Formula Cart fu scelto proprio dal Drake per far capire le sue intenzioni ai vertici della Federazione.
Nell’estate del 1985 Marco Piccinini, Direttore Sportivo della Ferrari, si recò negli Stati Uniti per “familiarizzare” con l’ambiente organizzativo e sportivo del campionato CART. In seguito, grazie a Leo Mehl storico responsabile del settore sportivo Goodyear , Piero Lardi Ferrari si recò negli USA ospite del team Truesports di Jim Trueman di cui facevano parte il pilota Bobby Rahal e Adrian Newey, progettista delle vincenti March 85C e 86C CART. A fine 1985 Jim Trueman e Bobby Rahal vennero a Maranello con al seguito una rossa March 85C-Cosworth DFX; Rahal (molto probabilmente candidato a pilotare la Ferrari ad Indianapolis) effettuò 40 giri dimostrativi a Fiorano per poi affidare la March a Michele Alboreto.
Il progetto del telaio fu affidato a Gustav Brunner che partì dalla base della March 85C mentre il propulsore era strettamente imparentato con l’8 cilindri già utilizzato nel mondiale endurance dalla Lancia LC2. Inizialmente si cercò di ingaggiare Adrian Newey che però era già stato scelto dalla March per gestire le monoposto del team Kraco Racing per la stagione 1986. Al progetto della futura 637 parteciparono anche Harvey Postlethwaithe e Antonio Bellentani.
Per prendere dimestichezza con lo stato dell’arte della tecnica di Indianapolis Brunner si recò ripetutamente negli States per assistere a gare del campionato CART, inclusa la 500 Miglia di Indianapolis del 1986 in quell’occasione accompagnato da Vittorio Ghidella, AD di Fiat Auto.
Dopo circa un anno, nell’estate del 1986, la 637 scese in pista a Fiorano con al volante Michele Alboreto affiancato da Bobby Rahal a bordo della March.
Con sorpresa dei molti presenti la 637 si dimostrò più performante della monoposto americana.
La leggenda narra che in occasione della visita di un esponente della Federazione a Maranello, Enzo Ferrari – dopo aver aperto le finestre del suo studio che davano sul circuito – fece accendere il motore della vettura. Il membro della Federazione rimase impressionato sentendo il possente boato della nuova monoposto, recepì il messaggio che riportò ai vertici della Federazione.
Nel settembre del 1986 Enzo Ferrari invita i giornalisti di tutto il mondo sulla pista di Fiorano per presentare ufficialmente la Ferrari Formula Cart.
La monoposto mostra linee e forme più compatte e snelle rispetto alle monoposto CART coeve; la scocca – nel rispetto dei regolamenti tecnici CART che vietano telai esclusivamente in fibra di carbonio – è realizzata in Avional e composito di fibra di carbonio e Kevlar. La vettura è dotata del caratteristico bocchettone per il rifornimento rapido, di sospensioni pull-rod, di un sistema di sollevamento idraulico a tre punti e di pneumatici Goodyear montati su cerchi a sei razze; le dimensioni principali sono: 4420mm di lunghezza, 1990 di larghezza ed un passo di 2812mm.
Il motore Ferrari 034 -disegnato da Angelo Marchetti e sviluppato con la collaborazione di Franco Rocchi- eroga una potenza dichiarata di 690 cavalli a 12.000 giri/minuto ed è gestito da una elettronica Magneti Marelli.
Si trattava di un 8 cilindri in V di 90° alimentato a metanolo, sovralimentato mediante un singolo turbocompressore (come da regolamento) IHI che forniva una pressione massima di sovralimentazione di 1,6 bar; bialbero, 4 valvole per cilindro. Assente, come da regolamento, l’intercooler. Le misure di alesaggio e corsa erano pari a 86 mm x 57 mm., rapporto di compressione di 11,5:1.
La cilindrata era pari a 2648,81cc, 2650cc, infatti, era la cilindrata massima ammessa per i motori “pure racing” cioè turbocompressi, di massimo 8 cilindri e con distribuzione ad alberi a camme in testa.
Il V8 di Maranello si rifaceva alla stessa filosofia costruttiva dei V6 Turbo di Formula 1 con l’aspirazione collocata all’esterno della “V” dei cilindri e lo scarico all’interno delle bancate; le valvole pop-off erano collocate a valle dei due cassoncini di aspirazione, uno per ciascuna bancata.
Il felice responso delle prime prove effettuate sulla pista di Fiorano infuse fiducia tanto da decidere di iscrivere la 637, affidata alla gestione dell’esperto team Truesport, alla gara del 12 Ottobre 1986 sul circuito di Laguna Seca.
Purtroppo, dopo la ricomposizione del rapporto con la FISA, la monoposto non fu più schierata in gara rimanendo solo un esercizio di tecnica.
Qualche tempo dopo l’Alfa Romeo tentò a sua volta un ingresso nella Indy Series. Leggenda vuole che il motore CART Alfa Romeo derivi dal V8 Ferrari. Vero in parte, innegabile l’ispirazione, del resto nel 1987 l’Alfa Romeo entra a far parte del gruppo Fiat, all’interno del quale orbita anche la Ferrari dal 1969, tuttavia si trattava di due progetti distinti.