Il termine maximoto entrò nel linguaggio motociclistico tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 quando la motocicletta vedeva mutare il proprio ruolo da mezzo di locomozione individuale ed economico a mezzo di svago.
Fino ad allora le moto più diffuse di maggior cilindrata, definite “moto pesanti” erano le 500 italiane o le inglesi e le tedesche che non superavano i 650 cc, con qualche puntatina verso i 750cc, ma con architetture motoristiche abbastanza arcaiche.
Poi i costruttori europei, seguiti a ruota dai giapponesi, iniziarono a proporre al mercato moto di 750cc con meccaniche evolute che evolveranno prima in versioni sportiveggianti per dare poi inizio alla corsa verso cilindrate e potenze sempre maggiori e tecnologie sempre più sofisticate.
Avendo ben interpretato la mutata qualità della richiesta, le case italiane più importanti (Laverda, Moto Guzzi e MV Agusta furono tra le prime in assoluto arrivando sul mercato prima della strepitosa Honda CB750 Four; successivamente arrivarono anche Ducati e Benelli) misero in produzione dei modelli che si distinguevano per originalità. In particolare i layout motoristici non avevano nulla in comune tra loro: si distinguevano per numero e disposizione dei cilindri, per tipo di distribuzione e cilindrata.
Queste le moto che dettero il via al fenomeno delle maxi:
Moto Guzzi V7 (1965), nata 700cc evoluta poi in 750, bicilindrico a V90° trasversale, distribuzione ad aste e bilancieri, trasmissione finale ad albero;
MV Agusta 600 (1966), 4 cilindri in linea, distribuzione bialbero, trasmissione finale ad albero, da cui derivò anni dopo la 750S;
Laverda 750 GT (1968), nata in due cilindrate (650 e 750) di cui la minore ben presto abbandonata, bicilindrico parallelo, distribuzione monoalbero in testa;
Ducati 750 GT (1971), bicilindrico V90° longitudinale (meglio noto come ad L per la disposizione quasi orizzontale del cilindro anteriore), monoalbero a camme in testa;
Benelli 650 Tornado (1971), bicilindrico parallelo, distribuzione ad aste e bilancieri, forse la meno prestigiosa nonostante il marchio.
Ancora oggi le “sopravvissute” Moto Guzzi e Ducati conservano le loro caratteristiche peculiari con i classici motori a V90°.
MV Agusta e Benelli sono “passate di mano” e, sia pure con risultati commerciali alquanto diversi, cercano di mantenere le loro caratteristiche di unicità; forse per un caso fortuito entrambe si sono orientate verso la configurazione a 3 cilindri.
La Laverda è invece scomparsa, del tutto sacrificata all’altare dell’Aprilia e della Moto Guzzi.
Altri due marchi italiani non ebbero fortuna in questo campo: la Gilera con una 500 bicilindrica che non andrà mai in produzione e la Moto Morini che, dopo un esperimento con una 500 turbo, passerà anch’essa di mano per ripresentarsi negli anni 2000 per la prima volta con una maxi, la Corsaro 1200.
Le giapponesi hanno invece seguito un percorso diverso, incominciando come le italiane con interpretazioni abbastanza personali (Honda 750 4 cilindri 4 tempi, Kawasaki 500 3 cilindri due tempi, Suzuki bicilindrico 2 tempi, Yamaha bicilindrico 4 tempi) ma poi progressivamente omologandosi su lay out comuni: il classico 4 cilindri trasversale, bialbero, 4 valvole.