Gli sport motoristici appartengono ad una strana categoria; vengono infatti definiti sport individuali, ma in realtà si gareggia sempre in coppia: il pilota ed il mezzo meccanico.
E’ fuori dubbio che i piloti non sono tutti uguali; il loro talento si esprime in modo diverso l’uno dall’altro a partire dallo stile di guida per arrivare all’approccio alla singola gara e al campionato nel suo intero arco temporale.
E non sono da trascurare la capacità di comunicare con il proprio team, la tenuta psicologica, la tenuta fisica, la capacità di adattamento alle diverse condizioni climatiche o alle diverse caratteristiche delle piste, dalle più veloci alle più tormentate, o alla diversa “affinità” tra pneumatico e tipologia di asfalto, e così via … senza dimenticare la capacità di adattarsi alla guida di moto dal “carattere” diverso, perché anche le moto non sono tutte uguali e comunque possono cambiare in funzione dei regolamenti tecnici.
Un pilota potrà vincere una gara per fortuite combinazioni e potrà addirittura arrivare ad un titolo mondiale, ma per affermarsi come top rider bisogna avere costanza nei risultati, sapersi confermare ai vertici.
Non si può essere sempre vincenti solo per fortuna; bisogna sapersi guadagnare il mezzo meccanico di vertice e saperne sfruttare le caratteristiche peculiari per portarlo alla vittoria.
E allora, assodato che le moto non sono tutte uguali e che spesso ce ne sono solo una o al massimo due che godono di una superiorità tecnica, sarebbe lecito chiedersi perché quella moto sia stata affidata ad un pilota piuttosto che ad un altro?
Escludiamo subito i piloti paganti o portatori di sponsor perché ai livelli di Honda, Yamaha e Ducati i top rider sono pagati profumatamente ed i marchi di questi costruttori sono già sufficienti per attrarre sponsor. E comunque nessuno di questi costruttori si sognerebbe mai di affidare una moto di vertice ad un pilota solo perché pagante.
E allora è chiaro che , fatti salvi eventuali vincoli contrattuali, le case vanno a caccia dei piloti più talentuosi già affermati (ed è il caso di Lorenzo alla Ducati) o da far maturare (come Vinales alla Yamaha).
In questo secondo caso, comunque non sono mancati i flop quando un pilota ha mostrato di non essere capace di adattarsi a mezzi e situazioni nuove e più impegnative.
In definitiva, ritornando al tema in oggetto (pilota/mezzo meccanico), è evidente che il fuoriclasse emergerà sempre prima o poi.
Infatti neanche un fuoriclasse, probabilmente, sarebbe capace di vincere con costanza con una moto non di vertice, ma certamente non andrebbe più piano di qualche suo collega meno dotato sul piano della guida e forse sarebbe spesso nelle parti alte della classifica. Come è vero che un pilota poco talentuoso difficilmente otterrebbe con costanza il top dei risultati anche se alla guida di una moto di vertice.
L’esempio più esplicito di quanto stiamo affermando non può che essere rappresentato dal grande, forse il più grande di tutti i tempi, Mike Hailwood.
E’ stato pilota ufficiale dei due costruttori più vincenti della sua epoca, MV Agusta e Honda, con le quali si batteva contro i piloti più forti piloti (Agostini, Hocking, Ivy, McIntyre, Read, Redman) spesso battendoli e contemporaneamente affibbiando enormi distacchi, anche superiori ad un giro, ai cosiddetti “gentleman drivers” del Continental Circus, come Artle, Cooper, Findlay, Minter, Pagani.
Ma Hailwood non si accontentava di battere i grossi calibri nelle competizioni mondiali; egli spesso gareggiava in gare non iridate, prevalentemente in Inghilterra, in sella alle stesse Norton private degli altri e alla fine, a parità di moto, sul gradino più alto del podio ci saliva sempre lui; magari, a parità di mezzo meccanico, non imponeva agli avversari distacchi disonorevoli, ma la vittoria rimaneva comunque un suo riservato dominio.