Negli anni ’50 e ’60, pur vivendo una crisi a causa del boom dell’automobilismo di massa che in Italia iniziò con la messa in commercio della FIAT 600 nel 1955 e si concretizzò con la FIAT 500 nel 1957, le industrie europee, in particolare quelle italiane ed inglesi, dominavano il mercato motociclistico.
Alla fine anni ’50 gli industriali italiani commisero un errore che avrebbe condizionato pesantemente il loro futuro: non ebbero la capacità di capire che la motocicletta utilitaria finalizzata alla mobilità individuale, che loro avevano perfettamente interpretato e sulla quale avevano basato le loro fortune commerciali fino all’avvento della automobile utilitaria alla portata di tutti, non aveva più mercato e si sarebbe dovuta trasformare in un veicolo per il tempo libero e per lo sport.
Dobbiamo ricordare che la maggior parte delle industrie italiane di moto all’inizio degli anni Sessanta erano ancora in mano ai loro fondatori, in quasi tutti i casi alquanto anziani ma ancora saldamente alla guida delle loro aziende con una visione molto radicata del prodotto motociclistico. E questa fu probabilmente una delle cause della crisi che in alcuni casi portò alla chiusura definitiva. Qualcosa di analogo si verificava anche in Gran Bretagna i cui costruttori erano tradizionalmente ancor più conservatori degli italiani.
Invece i giapponesi fecero proprio di questa nuova identità della motocicletta il loro cavallo di battaglia.
Altro merito dei giapponesi fu quello di industrializzare l’idea: cioè di progettare un sistema produttivo che ne consentisse la realizzazione in serie con intuibili economie di scala riuscendo nel contempo a risolvere tutti i problemi legati a un progetto di tale complessità: accoppiamenti e tolleranze di estrema precisione, scelta di materiali di alta qualità, con un occhio attento ai problemi legati alla manutenzione e all’assistenza tecnica sul territorio.
Colgo l’occasione per smentire una diffusa opinione popolare, cioè che il successo delle moto giapponesi sia dovuto alla pedissequa copiatura delle moto europee. Non è certamente così; le nostre moto erano ben fatte, ma troppo conservatrici, in prevalenza monocilindriche, aste e bilancieri, due valvole, scarsamente accessoriate.
I giapponesi volevano offrire di più e di meglio al mercato ed ebbero l’abilità di miscelare la tecnica delle grosse cilindrate inglesi con quella sofisticata delle NSU e Mondial da competizione con uno sguardo attento anche alle pluricilindriche da GP di MV Agusta e Gilera.
Insomma, studiarono quanto di meglio offrivano il mercato e la tecnica dell’epoca e poi presentarono la loro modello vincente.
Un chiaro esempio di questa strategia è rappresentato da ciò che fece la Honda per entrare nel competitivo mondo dei Gran Prix.
Agli inizi degli anni ’50 in Giappone iniziava la ricostruzione dopo la fine della guerra; fino a quel momento Soichiro Honda si era limitato a produrre un piccolo motore ausiliario per biciclette. Quando decise di uscire dall’ambito nazionale pensò di farlo partendo dalla partecipazione alle gare del motomondiale e per farlo al meglio decise di ispirarsi a quanto di meglio offriva all’epoca la platea motoristica in materia di piccole e medie cilindrate, quindi puntò alla tecnologia delle moto italiane e tedesche.
Honda-san, seguendo le corse, era rimasto affascinato dalla imbattibile Mondial 125 bialbero, regina incontrastata delle piccole cilindrate avendo conquistato tra il 1949 ed il 1957 5 titoli mondiali marche e 5 conduttori. Nel 1957 Honda contattò il Conte Giuseppe Boselli, patron della Mondial, per acquistare una delle sue moto ufficiali.
Ci sono numerose versioni sul perché il Conte Boselli decise di cedere una delle moto ufficiali del 1956 a quello che sarebbe chiaramente divenuto un concorrente nell’immediato futuro ma pare che, molto semplicemente, avesse preso Soichiro Honda in simpatia o forse perché inorgoglito dalla richiesta o forse perché era già maturata la decisione di ritirarsi dalle competizioni unitamente a Gilera e Guzzi. Qualunque sia stato il motivo il Conte Boselli decise addirittura di regalare la moto al patron della Honda che, per questa disponibilità, si sentì sempre grato nei confronti del Conte e perciò lasciò una sorta di testamento spirituale: oggi quella piccola GP italiana troneggia nel museo Honda a Motegi. La moto arrivò in Giappone nell’autunno del 1958 dove venne esaminata a fondo.
Anziché limitarsi a copiarla, gli ingegneri Honda decisero semplicemente di studiarne le soluzioni ingegneristiche e di partire poi da zero. Il primo risultato fu la RC141, in pratica poco più di un laboratorio viaggiante, seguita a breve dalla RC142, un progetto completamente nuovo. Fu con questa moto che la Honda decise di partecipare al TT nella classe 125: nel 1959 il team Honda si recò all’Isola di Man; i risultati furono più che incoraggianti: 6°, 7°, 8° e 10° posto più il premio per il miglior risultato di squadra per la classe 125!
Iniziarono così le accuse all’industria giapponese di non fare altro che copiare i più avanzati prodotti europei: in particolar modo iniziò a circolare la voce che la RC142 non fosse altro che una copia a cilindrata ridotta della NSU Rennmax 250.
Per quanto riguarda la produzione di serie invece si riteneva che la Honda avesse copiato le caratteristiche del motore della Horex Imperator 400 del 1954. In realtà, in entrambi i casi, i prodotti della Honda erano assolutamente originali.
In pratica. come già abbiamo detto, i giapponesi non si limitarono a copiare ma cercarono di capire quali fossero pregi e difetti della produzione motociclistica occidentale sia dal punto di vista tecnico che dal punto di vista commerciale e poi presentarono il loro innovativo modello di veicolo motociclistico moderno valido ancora oggi.
Al riguardo riporto le parole dello stesso Soichiro Honda tratte dal libro “Il signor Honda, come si è raccontato a Yves Derisbourg”: <<Convinto che il motore a 4 tempi fosse assolutamente essenziale non solo per i ciclomotori usati comunemente ma anche per i bolidi da corsa, i nostri ingegneri pensarono a soluzioni originali rispetto alla concorrenza. Se avevo portato con me dall’Europa dei pezzi di tecnologia, non era certo per copiarli stupidamente. Era con l’intenzione di farli studiare e di cercare di trovare soluzioni diverse per ottenere migliori risultati. E’ sempre stato così che abbiamo affrontato la ricerca. La copia non ha mai fatto evolvere le cose. Per imporci a tutto il mondo dovevamo provare le nostre capacità di creare concetti nuovi.>>
In questo contesto nasceva la Honda CB 750 Four che venne accolta come una moto sofisticata, ma che richiedeva poca manutenzione e che perciò può essere inserita fra le prime 10 motociclette più significative della storia.
Sul tema del boom delle moto giapponesi la rivista Motociclismo nel 1970 indisse un referendum tra i suoi lettori ed ottenne ben trentaduemila risposte il cui esito cerco qui di sintetizzare.
<<I partecipanti al referendum hanno espresso una larga tendenza verso la moto di grossa cilindrata, di elevate prestazioni, realizzata con moderni criteri meccanici, comoda, confortevole, esteticamente bella, cioè moto oltre i 700 cc capaci di 180-200 chilometri orari, quattro tempi, cinque marce. Pur se notevoli le preferenze per il motore bicilindrico e monocilindrico, non sono da sottovalutare quelle che riguardano il quattro cilindri (si tenga presente che oltre il 70 per cento dei partecipanti ha dichiarato di usare la moto per turismo).
Nessun dubbio lascia la stragrande maggioranza di risposte per quel che riguarda gli accessori. I partecipanti vorrebbero la messa in moto elettrica, i lampeggiatori, il misuratore di benzina, l’antifurto, specchi retrovisori e carenatura; in una parola una accessoristica ricca e una strumentazione completa.
I risultati del referendum hanno dimostrato che le macchine giapponesi fanno gola proprio perché rispondono ai criteri dianzi elencati. Questo spiega, per esempio, le indicazioni ben precise nei confronti della Honda quattro cilindri.>>
Non è vero quindi che gli italiani alla comparsa della Fiat 500 decisero di non voler più sapere nulla della moto; non vollero saperne più di quella tipologia di moto, ossia dell’utilitaria, ma appena arrivarono le giapponesi furono pronti ad accorrere dai concessionari per accaparrarsi le meraviglie tecniche del Sol Levante.
E fu nuovo boom del mercato della moto in Italia, a meno di dieci anni dal declino.