Essendo io nato nel 1948, giovani amici spesso mi chiedono cosa avessero avuto di tanto straordinario e cosa avessero significato per la mia generazione i tanto decantati anni ’60.
Le risposte sono quasi sempre le stesse e spesso anche generiche perché è difficile descrivere le sensazioni, le emozioni ed i sogni di una generazione d’altri tempi, di quei tempi!
Ma se si parla di motociclismo allora non ho difficoltà a pronunciarmi: è stata un’epoca di grandi campioni – Agostini, Hailwood, Pasolini e Read i più noti – e, delle più affascinanti moto da Gran Prix di tutti i tempi: le pluricilindriche.
In quegli anni infatti vigeva sostanzialmente una sola regola per le moto da Gran Prix: la cilindrata; nel momento del massimo splendore le classi arrivarono a cinque: 50, 125, 250, 350 e 500.
Era l’epoca della invasione giapponese e la sfida tecnica verteva principalmente sulla contrapposizione tra i motori a 4 tempi, di cui erano grandi sostenitrici Honda ed MV Agusta, ed i motori a 2 tempi di Suzuki e Yamaha; nello schieramento dei 2 tempi non fu marginale l’apporto della partecipazione di Jawa e soprattutto MZ.
Una breve premessa per capire perché si arrivò a quelli che qualcuno ritenne addirittura degli eccessi.
Non voglio scivolare in elaborati discorsi tecnici però è necessario capire in maniera estremamente semplicistica la differenza tra un 2 ed un 4 tempi: in un 2 tempi il ciclo si compie ad ogni giro dell’albero motore mentre nel 4 tempi sono necessari due giri. In teoria dunque, a parità di giri, il 2 tempi eroga una potenza doppia del 4 per cui, per ottenere la stessa potenza, il 4 tempi ha necessità di girare il doppio (i tecnici mi perdoneranno per questo eccesso di semplificazione).
Ma per ottenere un regime elevato è necessario avere innanzitutto ridotte masse in moto alterno (pistoni in particolare) di qui la soluzione di un maggiore frazionamento a parità di cilindrata; di conseguenza cilindrata unitaria ridotta e quindi pistoni, valvole e bielle più piccole.
La osservazione più ovvia sarebbe quella di chiedere perché questa strada, seguita dai costruttori di motori a 4 tempi, non fu battuta anche con il 2 tempi.
Anche in questo caso provo a dare una risposta semplificatrice: da una parte abbiamo dei limiti funzionali legati alla fluidodinamica specifica del 2 tempi che ne limitano la possibilità di girare molto in alto, dall’altra abbiamo dei limiti strutturali del 2 tempi (struttura particolare delle camere di manovella che fungono da carter pompa e carburatori laterali nei motori alimentati a disco rotante) che renderebbero il motore eccessivamente ingombrante e di difficile collocazione su una motocicletta.
A tal riguardo infatti ricordiamo che il massimo del frazionamento per i motori due tempi dell’epoca furono i 4 cilindri Suzuki e Yamaha 125 e 250; la Suzuki non si fece mancare neanche un 50 bicilindrico e si apprestava a mettere in campo per il 1968 un 50 tricilindrico prima che i regolamenti internazionali ne vietassero l’uso limitando a solo uno il numero dei cilindri per la classe 50. Un altro pregevole esempio di 2 tempi plurifrazionato fu la cecoslovacca Jawa 350 4 cilindri portata in gara da Ivy e da Grassetti.
La limitazione del numero dei cilindri, che progressivamente interesserà anche le classi superiori, fu uno dei motivi per cui la Honda si ritirò momentaneamente dalle competizioni; e infatti queste limitazioni “consegnarono” il motomondiale ai motori a due tempi.
Ritornando ai “nostri” 4 tempi, i tecnici della Honda ebbero modo di sbizzarrirsi affiancando ai classici MV Agusta 4 e 3 cilindri (poi ritornata al 4, ovviamente più moderno) le loro 50 bicilindriche, 125 5 cilindri e le 250/350 6 cilindri. Stranamente nella classe regina si “limitarono” al 4 cilindri.
Non è da escludere che, se i regolamenti non glielo avessero impedito, probabilmente la Honda avrebbe messo in cantiere moto da 50cc 3 cilindri, 125cc 6 cilindri, 250/350cc 8 cilindri ed una 500 a 6 cilindri. Ma non ne avremo mai la conferma.
Da rilevare che la Honda applicava un certo criterio di modularità, infatti non è difficile immaginare che la originale soluzione del 125 pentacilindrico derivasse dall’utilizzo della termica del 50 bicilindrico (125: 5 = 25cc) così come la cilindrata unitaria della 350/6 (che in effetti era una 300cc) era esattamente pari a quella della 50 monocilindrica degli anni precedenti.
Per comprendere il livello tecnologico raggiunto in quel periodo sarebbe sufficiente ricordare che quei motori spesso toccavano i 20.000 giri al minuto senza distribuzione desmodromica o richiamo pneumatico delle valvole. Per comprendere il valore del livello tecnologico raggiunto vi ricordo che stiamo parlando di fatti che avvenivano circa mezzo secolo fa.
Ma nel campo dei plurifrazionati da competizione il primato resta agli italiani che avevano intrapreso questa strada già nel 1956/57 con la Moto Guzzi che mise in campo una 500 8 cilindri mentre alla fine degli anni ’60 la Benelli aveva in fase avanzata il progetto di una 250 anch’essa ad 8 cilindri per il mondiale del 1970 (nella foto a destra una rara foto a colori del monoblocco; osservate le dimensioni, è poggiato su una sedia!).
Ma i loro progetti furono abortiti a causa di eventi particolari: il ritiro dalle competizioni nel caso della Moto Guzzi mentre nel caso della Benelli furono i nuovi regolamenti a tarpare le ali del nuovo progetto in quanto, a partire dal 1970, fu imposto il limite massimo dei due cilindri per le medie cilindrate.
Esperimenti con motori 6 cilindri furono condotti anche dalla MV Agusta prima con un 500 che fu vista solo una volta nel corso delle prove del GP delle Nazioni del 1957 ma non ebbe un seguito perché quello stesso anno Gilera, Mondial e MotoGuzzi firmarono il “patto d’astensione” e la MV preferì continuare con la più semplice 4 cilindri.
Nel 1969 la MV replica, ma questa volta con una 350 che fu usata solo in qualche test da Angelo Bergamonti.
Sia le Honda che la MV furono bloccate nel loro sviluppo dal regolamento entrato in vigore nel 1968 che imponeva un massimo di 2 cilindri per la 250 e di 4 cilindri per le classi maggiori.
Da quel momento sarà la fine di un’era favolosa sia dal punto di vista sportivo che tecnico che non avremmo mai più rivissuto.
Qualche anno dopo un’altra casa che si cimenterà con il 6 cilindri ma al di fuori dell’ambito del Motomondiale; la Laverda infatti realizzò la sua prestigiosa V6 da 1000cc destinata alle competizioni endurance, progettata nel 1976 dall’ing. Alfieri (ex Maserati).
Tutte queste sono storie più o meno conosciute dagli appassionati; meno nota è forse la genesi dell’8 cilindri Benelli che qui voglio ricordare con la preziosissima testimonianza di Innocenzo Nardi-Dei, DS Benelli all’epoca di Provini e Pasolini, raccolta personalmente da me:
<<Poco da dire intorno alla leggenda dell’8 cilindri del motore da corsa.
Nacque la necessità di cercare, a quel tempo, un ingegnere meccanico che andasse a sostituire l’ing. Savelli (colui che aveva progettato il nostro 4 cilindri) collocatosi in altra direzione; incontrammo l’ing. Lugli proveniente dalla Morini, un giovane molto valido ed esperto nei campo motoristico al quale affidammo lo studio preventivo e di fattibilità per la realizzazione di un propulsore pluricilindrico che avrebbe dovuto sostituire l’attuale 4 cilindri.
Data la supremazia della Honda con i sui 6 cilindri decidemmo di precorrere tempi e studiare la possibilità di realizzare un 8 cilindri che avrebbe dovuto avere una rotazione assai più veloce e quindi sviluppare maggiore potenza.
Il nostro 4 cilindri sebbene ben studiato non era facilmente smontabile al di fuori della fabbrica per l’eventuale e ricorrente necessità di poter facilmente e celermente modificare i rapporti del cambio sui campi di gara!
Dall’esperienza fatta sul 4 cilindri doveva derivare un nuovo propulsore sulla falsariga del vecchio ma con un disegno più moderno al fine di ottemperare alle necessità sorte con il progredire dei tempi. Riservammo un ufficio al di fuori della fabbrica e il Lugli cominciò l’ardua impresa! Non so ora dire il tempo che occorse per stilare le prime righe di un complesso meccanismo ma, l’impressione fu che l’ing. Lugli avesse le idee chiare. Troppo complesso apparve il lavoro man mano che si concretizzava il progetto, anche per il fatto che non conoscevamo i mezzi di supporto che potevamo trovare in Italia, come ad esempio l’impianto generatore di alta tensione elettrica per l’alimentazione delle candele.
La Magneti Marelli al momento non aveva niente di compatibile con le esigenze del progetto, cercammo in altri ambiti perfino dai costruttori dei motori marini ma difficilmente potevamo adattare apparecchiature già in costruzione, forse in Giappone potevamo trovare qualcosa di utile, ma decidemmo di lasciare all’ultimo momento l’ideazione di strutture adatte all’uopo.
Di difficoltà ne venivano fuori ogni giorno e il tempo inesorabilmente passava. Mi pare che dopo un paio d’anni ancora fossimo in alto mare. Facemmo preparare qualche modello in legno per le fusioni e furono realizzate una o due fusioni di prova ma ancora era da decidere tutto il sistema di accensione che non potevamo inventare ma dovevamo trovare già disponibile anche se da adattare!
Perdemmo un po’ le speranze ma quello che ci indusse a rinunciare al progetto furono le vicende commerciali e finanziarie che non promettevano niente di buono! Nel frattempo vincemmo il campionato del mondo nel 1969 e iniziarono le trattative con Alejandro De Tomaso. >>
Poi, come abbiamo visto, i regolamenti fecero il resto.