Al salone di Tokio del 1968 la Honda presenta una maxi moto destinata a cambiare il concetto di motocicletta: la CB 750 Four, dotata di un motore a 4 cilindri in linea e splendide finiture. Fino ad allora non si era mai visto niente di simile. Ma perché questa moto appariva così rivoluzionaria?
Alla fine anni ’50 gli industriali italiani commisero un errore che avrebbe condizionato pesantemente il loro futuro: non ebbero la capacità di capire che la motocicletta utilitaria finalizzata alla mobilità individuale, che loro avevano perfettamente interpretato e sulla quale avevano basato le loro fortune commerciali fino all’avvento della Fiat 500 nel 1957, non aveva più mercato e si sarebbe dovuta trasformare in un veicolo per il tempo libero e per lo sport. Qualcosa di analogo si verificava anche in Gran Bretagna.
Invece i giapponesi fecero proprio di questa nuova identità motociclistica il loro cavallo di battaglia.
E così gli utenti italiani, e tutti gli europei, appena arrivarono le giapponesi furono pronti a correre dai concessionari per accaparrarsi le meraviglie tecniche del Sol Levante. E fu un nuovo boom della moto in Italia, a meno di dieci anni dalla crisi.
Colgo l’occasione per smentire una diffusa opinione popolare, cioè che il successo delle moto giapponesi sia dovuto alla pedissequa copiatura delle moto europee. Non è certamente così; le nostre moto erano ben fatte, ma troppo conservatrici: monocilindriche, aste e bilancieri, due valvole. I giapponesi volevano offrire di più e di meglio al mercato ed ebbero l’abilità di miscelare la tecnica delle grosse cilindrate inglesi con quella sofisticata delle NSU e Mondial da competizione mantenendo un occhio puntato anche sulle MV Agusta e Gilera 500/4 da GP. Insomma, studiarono il meglio, poi presentarono la loro sintesi vincente.
In pratica i giapponesi non si limitarono a copiare ma cercarono di capire quali fossero pregi e difetti della produzione motociclistica occidentale sia dal punto di vista tecnico che dal punto di vista commerciale e poi presentarono il loro innovativo modello di veicolo motociclistico moderno, le cui linee guida sono valide ancora oggi.
In questo contesto nasceva la Honda CB 750 Four che perciò può essere inserita fra le prime 10, o anche meno, motociclette più significative della storia.
Quando viene commercializzata, nel 1969, cambia radicalmente il panorama motociclistico mondiale; viene addirittura preferita alla spider, che fino ai primi anni ’60 era simbolo della spensierata gioventù, per la sua dotazione tecnica straordinaria con il suo prestigioso motore a 4 cilindri e l’avviamento elettrico, una componente che da sola spingeva all’acquisto della moto tanti che fino ad allora mai avrebbero pensato di abbandonare le 4 ruote.
La concorrenza, spiazzata, invecchia di colpo di almeno 10 anni.
Per questi motivi il 1969 può essere considerato l’anno zero del motociclismo moderno.
La CB 750 Four era dotata di un motore a 4 tempi e 4 cilindri in linea da 736 cc con albero a camme in testa comandato a catena e due valvole per cilindro, per una potenza di 67 CV.
Già il solo motore rappresentava una rivoluzione, in quanto all’epoca la maggioranza delle moto utilizzava la distribuzione ad aste e bilancieri mentre le potenziali concorrenti (Moto Guzzi V7, Laverda SF, Ducati 750 GT, Norton Commando, BMW R75/5) avevano in maggioranza motori bicilindrici oppure a tre cilindri ma a due tempi, come la Suzuki 750 GT o la mitica Kawasaki 750 Mach IV.
L’idea di un propulsore a quattro tempi così frazionato in realtà non era rivoluzionaria di per sé stessa, ma la sfida fu quella di proporlo in scala industriale non più riservato alle competizioni. Infatti i progettisti della Honda erano stati capaci di trovare soluzioni a tutti i problemi legati a un progetto di una tale complessità partendo dalla adozione di materiali di elevata qualità, studiando accoppiamenti e tolleranze di estrema precisione, per arrivare ai problemi legati all’assistenza tecnica lontana dal paese di produzione. Per questo la CB 750 Four guadagnò in breve tempo la fama di moto sofisticata ma che al contempo richiedeva poca manutenzione.
Il motore era alimentato con 4 carburatori ed espelleva i gas combusti mediante quattro minacciosi tromboncini di scarico; il cambio era a 5 rapporti, l’avviamento era elettrico ma la moto era dotata anche della canonica leva a pedale per le emergenze. La strumentazione era completa, almeno per l’epoca e, altra grande novità tecnica di cui non erano dotate neanche le moto da Gran Premio, il freno anteriore era a disco comandato idraulicamente. Per contenere l’altezza del motore fu adottato un sistema di lubrificazione a carter secco, che consentiva di eliminare la coppa dell’olio.
Le finiture erano superlative.
La Honda 750 Four è stata prodotta dal 1969 al 1978 in dieci versioni, dalla prima fino alla K8. La prima serie, denominata K, fu prodotta da agosto del 1969 fino a giugno del 1970; poi a seguire vennero la K0 (giugno 1970 – agosto 1970) poi la K1 (1970/71) e a seguire fino alla K8 (maggio 1977 – maggio 1978). Questi erano per lo più dei restyling, cui seguì la serie F caratterizzata da un diverso serbatoio e da uno scarico 4 in 1, pur mantenendo inalterato lo schema motoristico.
Tra il 1976 ed il 1978 furono prodotti anche 8000 esemplari di una una versione automatica con convertitore di coppia e cambio a 2 marce comandato a pedale; ne furono prodotte circa 8000.
Si stima che siano stati prodotti oltre mezzo milione di esemplari di CB 75o Four.
Bisogna quindi ammettere che la Honda CB 750 Four è entrata giustamente nella leggenda anche perché nell’uso manteneva tutte le promesse: mancanza di vibrazioni, assenza di trafilaggi di olio, una eccellente versatilità che consentiva con pari soddisfazione il normale impiego cittadino, una guida sportiveggiante, l’impiego per lunghi viaggi in due.
Sull’onda del successo della 750 Four la Honda mise in produzione due versioni minori, prima la CB 500 (1971) seguita dalla CB350 nel 1972.
La 750 Four nello sport
Per promuovere la nuova nata sul ricco mercato americano la Honda pensò di partecipare alla gara più prestigiosa che si svolgeva negli USA: la 200 miglia di Daytona.
Per la corsa del 1970 fu approntata perciò la CB750 Racing; sulla denominazione non ci sono certezze, alcuni la ricordano come CR750 Daytona in realtà questa sarebbe la denominazione della versione clienti della Racing.
Potremmo riassumerne la storia con la locuzione “veni, vidi, vici”.
Furono iscritte 4 moto affidate agli inglesi Bill Smith, Ralph Bryans, Tommy Robb e all’americano Dick Mann. Le moto, che avevano in realtà ben poco di serie, manifestarono alcuni problemi, come i carter in magnesio sostituiti con altri di serie perché si espandevano troppo con il calore ed i tendicatena sostituiti con quelli della CB 450.
In gara tutte le Honda ebbero dei problemi, tranne quella di Dick Mann che vinse la gara. Subito dopo il traguardo anche la catena di distribuzione della sua moto si ruppe! Da allora le moto furono ritirate dalle competizioni.
La CB 750, o meglio il suo motore, ottenne molti successi nella gare Endurance, specialmente per merito della Japauto, la più importante concessionaria Honda per la Francia.
Dopo una prima vittoria al Bol d’Or del 1969 con una moto “quasi” di serie Christian Villaseca, titolare della Japauto, convinto che una CB750 di serie non sarebbe stata in grado di replicare il successo del 1969, fece realizzare nelle proprie officine una special di 946 cc; l’aumento della cilindrata venne ottenuto maggiorando l’alesaggio 61 a 70 mm. La ciclistica viene mantenuta totalmente di serie con dei fazzoletti di rinforzo; in seguito verrà adottato un telaio realizzato dallo specialista DRESDA.
La 950 SS del 1970 è una moto fondamentale nella storia della Japauto, perché da lei discendono tutti i futuri modelli da competizione nati nell’officina parigina.
Da allora, dopo una stagione 1971 interlocutoria con scarsi risultati, le Honda Japauto diventeranno per un ventennio protagoniste assolute nelle gare di Endurance.